
Cambogia
Cambogia
Introduzione
La Cambogia è uno di quei paesi che ti sorprendono appena metti piede fuori dall’aeroporto. Prima di partire conoscevo poco della sua storia, ma una volta lì ho scoperto un mondo ricco, intenso, a tratti luminoso e a tratti doloroso. Qui è fiorita la più grande civiltà del Sud-Est asiatico, la civiltà di Angkor; è stata colonia francese, lasciando in eredità angoli dall’insolito fascino europeo; e purtroppo ha vissuto una delle tragedie più terribili del Novecento con il regime dei Khmer Rossi.
Phnom Penh
Phnom Penh, la capitale della Cambogia, è una città fatta di contrasti così forti da lasciarti disorientato fin dal primo istante. Il mio primo impatto è stato quasi traumatico: prendo il primo tuk tuk della mia vita e ancora oggi non so spiegarmi come siamo riusciti ad arrivare sani e salvi all’ostello. Il traffico è puro caos, un’entropia totale in cui sembra non esistere alcuna regola… eppure tutto scorre, tutto funziona. Le strade sono invase da tuk tuk e remork moto, due per corsia, con motorini che si infilano in ogni spazio possibile. In mezzo a questo fiume di mezzi compaiono poi auto di lusso dai vetri oscurati, come se appartenessero a un altro mondo. È un caos controllato, inspiegabilmente efficace. Incredibile a dirsi, ma non ho visto un solo incidente.
Girando per la città si nota subito una spaccatura evidente: la zona turistica, curata e ordinata, e il resto della città, dove la vita scorre in modo più crudo. Qui tantissime persone molto povere lavorano in piccoli negozi improvvisati lungo le strade, vendendo di tutto. Ma sono soprattutto i mercati ad avermi colpito: rappresentano la vera Asia, quella che immaginavo prima di partire. Gente seduta a terra che vende qualunque tipo di cibo, bancarelle coperte da lamiere che fanno da tetto e da pareti, vicoli talmente stretti da farti perdere l’orientamento. Per i cambogiani è normalità; per me è stato uno shock culturale affascinante, qualcosa di completamente diverso dalle mie abitudini.
Ho visitato le principali attrazioni della città: il Museo Nazionale, il Palazzo Reale e la Pagoda d’Argento. Tutti luoghi belli e interessanti, ma nulla mi ha colpito quanto ciò che si trova appena fuori Phnom Penh. Ho visitato un Killing Field e ne sono uscito scosso. La sensazione era la stessa che avevo provato visitando un campo di concentramento nazista: un’aria pesante, un silenzio che ti schiaccia, una tristezza difficile da descrivere. Mentre ascoltavo la storia del regime dei Khmer Rossi continuavo a farmi domande. L’orrore che l’essere umano è in grado di infliggere ad altri esseri umani è qualcosa che fatichiamo a comprendere. Quante vite spezzate per un’ideologia.
Nonostante tutto, ho avuto la sensazione che i cambogiani stiano vivendo una fase nuova, più serena. È un popolo che porta le cicatrici della sua storia ma che sembra guardare avanti con una forza ammirevole.
Phnom Penh, però, non è solo storia e caos: è anche il luogo dove ho mangiato il miglior cibo di tutta la Cambogia. Ho provato le rane fritte, il Lok Lak – un piatto di manzo speziato servito con riso – e l’Amok di pesce, una vera delizia che ancora oggi, solo a pensarci, mi fa venire l’acquolina in bocca.
A distanza di tempo non so ancora dire con certezza se Phnom Penh mi sia piaciuta oppure no. È una città che divide, che ti confonde, che ti provoca. Una città di contrasti, come ho scritto all’inizio. Forse è proprio per questo che mi è rimasta dentro: perché non ti lascia indifferente.

Battambang
Battambang è una città che conserva un affascinante stile coloniale francese, un contrasto elegante rispetto alla vita rurale che la circonda. Grazie a un tour organizzato dall’ostello ho avuto l’occasione di immergermi nella quotidianità della Cambogia più autentica. Ho visto una famiglia produrre la carta di riso direttamente a casa, un’altra distillare il vino di riso, un liquore molto forte che i cambogiani bevono spesso dopo i pasti. Lungo la strada ho incontrato una signora che cucinava ratti alla griglia: la guida ci ha spiegato che, durante il periodo dei Khmer Rossi, la popolazione era costretta a mangiare tutto ciò che trovava, dai ratti agli insetti.
Tra le varie bancarelle ho assaggiato il bamboo sticky rice, un dolce tipico fatto di riso cotto dentro una canna di bambù: semplice, dolce, particolare.
Lasciata la zona rurale, ho avuto anche il mio primo assaggio della cultura angkoriana visitando Wat Ek Phnom, un tempio dell’epoca di Angkor, solo un’anticipazione di ciò che avrei visto poi a Siem Reap.
A Battambang ho provato anche la famosa esperienza del bamboo train: una specie di piattaforma montata su binari reali che sfreccia tra i campi cambogiani. Un’attrazione divertente… finché non ci hanno fermato annunciando che stava arrivando il treno vero. Solo in quel momento ho realizzato che non si trattava di una linea abbandonata: pura follia cambogiana.
Ho visitato poi Phnom Sampeau, dove si trovano la Killing Cave e la Bat Cave. La Killing Cave è un luogo di memoria terribile: un’altura dove i Khmer Rossi torturavano e uccidevano i cambogiani. Colpiscono i templi costruiti in cima, immersi nella foresta, e le scimmie che popolano l’area convivendo con gli abitanti… spaventando tutti i turisti.
Sotto l’altura si trova la Bat Cave: al tramonto ho assistito a uno spettacolo impressionante. Milioni di pipistrelli – si stima circa 6,5 milioni – escono dalla caverna e volano in direzione del lago Tonlé Sap in cerca di cibo. Per più di un’ora ho guardato questo fiume nero animato scorrere nel cielo: un’immagine che non dimenticherò facilmente.
Ed è proprio qui, in questa parte della Cambogia, che ho visto i panorami più belli del viaggio: la vista dall’alto di Phnom Sampeau, i campi di riso attraversati dalla ferrovia e l’ingresso nel gigantesco lago Tonlé Sap, dove una mandria di bufali brucava l’erba immersa nell’acqua. Scorci così intensi da restare impressi anche senza bisogno di una foto.
Una menzione speciale va al viaggio da Battambang a Siem Reap. Ho percorso il tragitto su una piccola barca che risale il fiume fino al Tonlé Sap. Durante la navigazione ho potuto ammirare i famosi floating villages, villaggi costruiti su palafitte dove la vita si svolge interamente sull’acqua: bambini che guidano da soli la barca per andare a scuola, famiglie che pescano, cucinano e vivono sospese tra cielo e fiume.
Mi ha colpito anche l’enorme distesa di fiori di loto asiatico che ricopriva il corso d’acqua: a un certo punto la barca si è persino incagliata in mezzo a quel tappeto verde, riuscendo a liberarsi solo grazie all’abilità del barcaiolo cambogiano.

Siem Reap
Arrivare a Siem Reap è stato come cambiare atmosfera con un clic. Dopo il traffico impazzito di Phnom Penh e il fascino rurale di Battambang, Siem Reap mi è sembrata quasi un’altra Cambogia: ordinata, moderna, con un tocco sorprendentemente europeo. Si sente che siamo a un passo da uno dei siti archeologici più importanti al mondo, e la città sembra voler accogliere nel modo migliore chi arriva per scoprire Angkor.
La prima cosa che ho fatto – inutile dirlo – è stata andare al mercato notturno lungo il fiume. Lo sapete: se c’è un mercato, io ci finisco dentro. Luci calde, bancarelle, profumi di street food… un piccolo caos ben organizzato, come piace a me.
Uscito dal mercato, quasi per sbaglio, mi sono ritrovato in Pub Street. E lì ho pensato: “Ma dove sono finito?”. L’ingresso è segnato da un enorme cartello al neon rosso, e da lì in poi è un tuffo in un mondo completamente diverso: bar e pub ovunque, ristoranti illuminati da luci sgargianti, musica assordante che rimbalza da un locale all’altro.
Ho visto bar sport in pieno stile americano, con maxi-schermi che trasmettevano qualsiasi sport esistente, turisti intenti a divorare hamburger e a bere birra come se non ci fosse un domani. Non poteva mancare il ristorante “italiano” (virgolette d’obbligo), con pizze creative e paste dal dubbio passato in patria. Accanto, un pub irlandese vecchia scuola… e subito dopo una discoteca moderna in stile cinese.
Insomma: luci, neon, caos, festa. Un angolo di Cambogia che non mi aspettavo affatto di trovare, ma che – nel suo essere così fuori contesto – ha un fascino tutto suo.
Angokor Wat
uesti sono i templi che ho visitato nell’area di Angkor: Pre Rup, East Mebon, Ta Som, Neak Pean, Preah Khan, Angkor Wat, Bayon, Angkor Thom, Phimeanakas, Ta Keo, Ta Prohm, Banteay Kdei, Banteay Srei, Preah Ko, Bakong e Lolei.
Elencarli è facile; descriverli davvero richiederebbe un’enciclopedia intera. Ognuno ha un carattere proprio, un dettaglio che ti sorprende, un angolo che ti lascia senza parole.
Camminare tra queste rovine è un viaggio nel tempo: ti ritrovi catapultato in un’epoca in cui i sovrani erano considerati divinità, e ogni pietra racconta la grandezza di un impero che ha governato questa terra per secoli.
Ad Angkor Wat mi sono sentito un archeologo, intento a leggere i bassorilievi che scorrono come pagine di una storia antichissima. A Ta Prohm, invece, è impossibile non trasformarsi in esploratori: qui la natura ha vinto, ha stritolato i muri e abbracciato le torri con radici gigantesche.
Il Bayon, però, è il tempio che più mi ha messo i brividi. Camminare tra centinaia di volti scolpiti nella pietra, che ti osservano da ogni direzione, è un’esperienza quasi ipnotica. Ti senti piccolo, sorvegliato, parte di qualcosa di antico e imponente.
Visitare i templi di Angkor è stata un’esperienza che, da sola, vale un viaggio in Cambogia.

Una delle cose più belle è stata vedere l’alba ad Angkor Wat e il tramonto dalla cima di Phnom Bakheng.
L’alba è stata magica: il cielo si è acceso d’arancione e il sole è spuntato dietro una delle meraviglie del mondo moderno. Ho scattato foto che sembravano cartoline, ma la realtà era ancora più bella.
Il tramonto, invece, mi ha regalato un’emozione diversa. Aveva piovuto tutto il giorno, e per questo non ho visto il sole scendere dietro la foresta. Ma la pioggia aveva lasciato un silenzio quasi sacro: eravamo in pochi, il vento leggero, la vista su un mare di alberi dove spuntava imponente Angkor Wat.
È stato un momento di pace totale, uno di quelli in cui senti le energie che ti tornano addosso tutte insieme.
Tre giorni ad Angkor non sono bastati — e in effetti è proprio vero che l’appetito vien mangiando.
Così il quarto giorno ho deciso di spingermi oltre e visitare la zona di Koh Ker e il tempio di Preah Vihear, quasi al confine con la Thailandia.
A Koh Ker ho trovato uno dei templi più alti che abbia mai visto, una piramide che sale verso il cielo e ti regala un panorama incredibile: una distesa infinita di foresta cambogiana, verde e potente.
Preah Vihear, invece, domina un altopiano con una vista che spazia tra Cambogia e Thailandia. Per salire bisogna cambiare mezzo: la strada è troppo ripida e tortuosa, quindi solo le guide autorizzate possono accompagnarti con i loro pick-up.
In cima, il tempio è spettacolare, e le scimmie che si aggirano tra le rovine rendono la scena ancora più surreale.
C’è un dettaglio che non mi aspettavo: lungo la strada ho notato posti militari, soldati e perfino qualche carro armato mimetizzato nella vegetazione. Una volta arrivati, altre postazioni dell’esercito erano visibili tra le rovine.
Parlando con i nostri accompagnatori ho scoperto che qui la tensione tra Cambogia e Thailandia è ancora alta: la zona è contesa, e pochi giorni prima c’era stato uno scontro a fuoco in cui era morto un cambogiano.
Per fortuna non ho vissuto nessun momento pericoloso, ma è inquietante pensare che, proprio in quei giorni, la situazione stava di nuovo peggiorando.
Eppure, nonostante tutto, la bellezza di Preah Vihear resta qualcosa di difficile da dimenticare.
Kampot - Kep
L’ultima tappa del mio viaggio è stata Kampot. Per raggiungerla ho attraversato praticamente tutta la Cambogia: quasi dieci ore su un pulmino condiviso con la popolazione locale. I cambogiani usano spesso questi mezzi per spostarsi e ci caricano davvero di tutto. Sul mio, oltre ai passeggeri, viaggiavano sacchi enormi di riso e persino un motorino. Un’esperienza decisamente autentica.
Kampot è una cittadina tranquilla affacciata su un fiume lento, con un’aria che sembra cambiare a seconda della stagione. In estate si anima con sport acquatici e vita notturna; a giugno, quando ci sono stato io, la città era più silenziosa, quasi sonnolenta. L’ostello in cui alloggiavo era immerso nel verde, sulle rive del fiume: un posto bellissimo, quasi sospeso nel tempo. Peccato che la bassa affluenza turistica e la pioggia quotidiana lo rendessero un po’ troppo quieto.
Kampot è famosa per il pepe, considerato uno dei migliori al mondo. Ho visitato una piccola azienda agricola dove i lavoratori selezionavano a mano, uno per uno, i chicchi destinati all’esportazione. Un lavoro meticoloso che rivela quanto questo prodotto sia prezioso per la regione. Per il resto, Kampot mi è sembrata una città serena, costellata di bar e ristorantini lungo il fiume, molto più residenziale rispetto alle altre località viste in Cambogia.

A poca distanza si trova Kep, famosa per il suo mercato del granchio. Qui ho visto quantità impressionanti di pesce fresco e montagne di granchi appena pescati, pronti per essere cucinati. L’atmosfera è quella caotica e vibrante dei mercati del Sud-Est asiatico: profumi intensi, grida dei venditori, pentole fumanti. Dopo averlo visto non potevo certo andarmene senza assaggiare il celebre granchio al pepe di Kampot. Dopo l’Amok, è sicuramente una delle cose più buone che abbia mangiato in tutto il viaggio.
Ho sempre sognato di fare un viaggio in Asia e quando ho scelto la Cambogia l’ho fatto con un desiderio preciso: trovare quell’autenticità che i Paesi più turistici spesso perdono. Volevo vivere un’avventura zaino in spalla, dormire negli ostelli, mangiare il cibo locale, spostarmi come fanno i cambogiani. E alla fine posso dire di aver trovato esattamente ciò che cercavo — e forse anche di più.
La Cambogia mi ha mostrato un mondo lontanissimo dal mio, fatto di contrasti forti, estremi. Ho visto povertà profonda e ricchezze inattese, una generazione ancora segnata dalle ferite del regime dei Khmer Rossi e allo stesso tempo un popolo orgoglioso delle proprie radici, figlie della straordinaria civiltà angkoriana. Un Paese che porta addosso sia le cicatrici che la grandezza della sua storia.
Questo viaggio mi ha fatto riflettere molto: viviamo tutti nello stesso mondo, eppure le nostre vite scorrono su binari completamente diversi. La Cambogia mi ha lasciato questo pensiero, insieme alla sensazione di essere cresciuto un po’ come viaggiatore e come persona.
Un viaggio autentico, duro e bellissimo. Uno di quelli che ti rimangono dentro.
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Traccia del viaggio